Enrico Berlinguer
nasce il 25 maggio del 1922 a Sassari. Nella cittadina sarda
trascorre l'infanzia e l'adolescenza, frequenta il liceo classico
Azuni e nel 1940 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza.
Nell'agosto del 1943 aderisce al PCI. Inizia allora il suo impegno
politico con la partecipazione alle lotte antifasciste dell'Italia
badogliana dove impera la guerra civile. Nel gennaio del 1944 viene
arrestato con l'accusa di essere il principale istigatore delle
manifestazioni per il pane, che si sono svolte nei mesi precedenti.
Resta in carcere quattro mesi. A settembre si trasferisce a Roma con
la famiglia, poi a Milano dove lavora nel Fronte della gioventù, il
movimento politico fondato da Eugenio Curiel per coordinare
l'arcipelago delle organizzazioni giovanili antifasciste.
La sua carriera politica nel PCI comincia nel gennaio del 1948, quando a ventisei anni entra nella direzione del partito e meno di un anno dopo diventa segretario generale della FGCI, la Federazione giovanile comunista. È un uomo instancabile che gli amici descrivono timido e introverso. Un giovane dirigente comunista, lontano dalla mondanità e dai clamori della politica, che nel 1956 lascia l'organizzazione giovanile e l'anno dopo sposa a Roma Letizia Laurenti.
Nel 1958 Berlinguer entra nella segreteria del partito per affiancare Luigi Longo, vicesegretario e responsabile dell'ufficio di segreteria. Da allora il rapporto fra Berlinguer e il segretario Togliatti diviene quotidiano. Togliatti si fida di questo giovane dirigente sardo, tanto che nel febbraio del 1960, al IX Congresso del PCI, lo vuole al posto di Giorgio Amendola come responsabile dell'organizzazione del partito e nel dicembre del 1961 chiede a Berlinguer di scrivere la relazione finale del comitato centrale del partito, dove proprio Amendola ha ripreso la polemica sui crimini stalinisti.
Fra il 1964 e il 1966 Berlinguer mostra la sua grande capacità di mediare gestendo un grosso scontro interno al partito. La destra del PCI, rappresentata da Amendola, sostiene la formazione di un unico partito socialista che unisca tutte le forze della sinistra italiana. L'ala radicale di Pietro Ingrao, invece, si batte affinché il PCI si allei con i gruppi della sinistra rivoluzionaria. All'XI Congresso, nel gennaio del 1966, Berlinguer si fa interprete delle esigenze di tutto il partito presentandosi come un mediatore di prima grandezza. È un successo personale, confermato due anni dopo dalle elezioni del 1968 in cui è capolista nel Lazio. Un successo che esplode e si diffonde dopo i fatti di Praga. Berlinguer condanna l'intervento sovietico in Cecoslovacchia e respinge «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni». Lo strappo è senza precedenti. Nel 1969 a Mosca, alla conferenza internazionale dei partiti comunisti, dichiara apertamente il dissenso dei comunisti italiani nei confronti della politica stalinista.
Ormai è vicesegretario del PCI. Al congresso del 1969, Berlinguer appoggia la linea movimentista e introduce uno dei temi più importanti del suo progetto politico. Ai delegati presenta il partito come una forza centrale della società italiana, una forza fra le istituzioni e i cittadini, che deve essere coinvolta nella formazione e nella gestione dei processi democratici del paese perché ne è parte decisiva. Il PCI che vuole Berlinguer non è solo il partito della classe operaia: deve candidarsi a guidare il paese, ponendo fine alla conventio ad excludendum per cui i comunisti di fatto sono esclusi dal governo.
Nel 1972 Berlinguer diviene segretario del PCI e al XII congresso riprende la formula togliattiana della collaborazione fra le grandi forze popolari: comunista, socialista e cattolica. Ma c'è anche di più, non si tratta solo di ribadire la tesi che Togliatti espresse sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Con tre articoli su «Rinascita», fra il settembre e l'ottobre del 1973, Berlinguer propone la sua analisi della società moderna partendo dal colpo di Stato in Cile, che ha mostrato a cosa può andare incontro una democrazia fragile. Così scrive il 12 ottobre del 1973: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». Lo spiega chiaramente. L'Italia è una democrazia debole che ha bisogno di un'alternativa condivisa e costruita dai grandi partiti di massa.
Il grande successo elettorale, ottenuto dai comunisti italiani alle elezioni del 1975 e del 1976, conferma l'intuizione di Berlinguer e sconvolge il sistema politico, ormai da anni afflitto da un'endemica instabilità e bloccato dalla DC che è al centro dei governi e delle maggioranze parlamentari. I tempi sembrano maturi per un cambiamento radicale della politica italiana. Nel 1976 accanto alla proposta del compromesso storico, Berlinguer esplicita l'altro tema della sua politica di dirigente comunista: rompe con il Partito Comunista sovietico. A Mosca, davanti a 5 mila delegati Berlinguer parla del valore della democrazia e del pluralismo, sottolinea l'autonomia del PCI dall'URSS e condanna l'interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri paesi. È l'eurocomunismo.
Con il compromesso storico e l'eurocomunismo, Berlinguer porta il PCI, dopo le elezioni del 1976, al primo governo della solidarietà nazionale. Si tratta di un monocolore democristiano che si regge sulla «non sfiducia», cioè sull'astensione dei vecchi partners di governo ai quali si aggiungono i comunisti. A sinistra, molti sottolineano che non è questa la ratio del compromesso storico e che il PCI non riuscirà ad ottenere ciò che ha chiesto ai democristiani in cambio della non sfiducia. E, infatti, le elezioni del 1977 non lo premiano. Nel gennaio 1978 Berlinguer incontra Aldo Moro, il leader democristiano con cui ha costruito il governo della solidarietà nazionale e gli chiede di agevolare l'entrata dei comunisti al governo. Ma ad opporsi sono in molti: la destra democristiana, il Vaticano, gli amici americani, la destra italiana. E intanto nel paese il terrorismo miete le sue vittime; due mesi dopo le BR rapiscono e uccidono Moro. È la fine della solidarietà nazionale e del progetto di Berlinguer. Il PCI torna all'opposizione.
Nel 1981, in un'intervista a Eugenio Scalfari, Berlinguer accusa la classe politica italiana di corruzione, sollevando la cosiddetta questione morale. Denuncia l'occupazione da parte dei partiti delle strutture dello Stato, delle istituzioni, dei centri di cultura, delle Università, della Rai, e sottolinea il rischio che la rabbia dei cittadini si trasformi in rifiuto della politica. È l'analisi di un grande leader politico che l'11 giugno del 1984 a Padova, mentre conclude la campagna elettorale per le elezioni europee, viene colpito da un ictus. Il suo funerale è stato il più imponente della storia d'Italia, dopo quello di Giovanni Paolo II. A Roma erano milioni i cittadini che lo salutarono l'ultima volta.
La sua carriera politica nel PCI comincia nel gennaio del 1948, quando a ventisei anni entra nella direzione del partito e meno di un anno dopo diventa segretario generale della FGCI, la Federazione giovanile comunista. È un uomo instancabile che gli amici descrivono timido e introverso. Un giovane dirigente comunista, lontano dalla mondanità e dai clamori della politica, che nel 1956 lascia l'organizzazione giovanile e l'anno dopo sposa a Roma Letizia Laurenti.
Nel 1958 Berlinguer entra nella segreteria del partito per affiancare Luigi Longo, vicesegretario e responsabile dell'ufficio di segreteria. Da allora il rapporto fra Berlinguer e il segretario Togliatti diviene quotidiano. Togliatti si fida di questo giovane dirigente sardo, tanto che nel febbraio del 1960, al IX Congresso del PCI, lo vuole al posto di Giorgio Amendola come responsabile dell'organizzazione del partito e nel dicembre del 1961 chiede a Berlinguer di scrivere la relazione finale del comitato centrale del partito, dove proprio Amendola ha ripreso la polemica sui crimini stalinisti.
Fra il 1964 e il 1966 Berlinguer mostra la sua grande capacità di mediare gestendo un grosso scontro interno al partito. La destra del PCI, rappresentata da Amendola, sostiene la formazione di un unico partito socialista che unisca tutte le forze della sinistra italiana. L'ala radicale di Pietro Ingrao, invece, si batte affinché il PCI si allei con i gruppi della sinistra rivoluzionaria. All'XI Congresso, nel gennaio del 1966, Berlinguer si fa interprete delle esigenze di tutto il partito presentandosi come un mediatore di prima grandezza. È un successo personale, confermato due anni dopo dalle elezioni del 1968 in cui è capolista nel Lazio. Un successo che esplode e si diffonde dopo i fatti di Praga. Berlinguer condanna l'intervento sovietico in Cecoslovacchia e respinge «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni». Lo strappo è senza precedenti. Nel 1969 a Mosca, alla conferenza internazionale dei partiti comunisti, dichiara apertamente il dissenso dei comunisti italiani nei confronti della politica stalinista.
Ormai è vicesegretario del PCI. Al congresso del 1969, Berlinguer appoggia la linea movimentista e introduce uno dei temi più importanti del suo progetto politico. Ai delegati presenta il partito come una forza centrale della società italiana, una forza fra le istituzioni e i cittadini, che deve essere coinvolta nella formazione e nella gestione dei processi democratici del paese perché ne è parte decisiva. Il PCI che vuole Berlinguer non è solo il partito della classe operaia: deve candidarsi a guidare il paese, ponendo fine alla conventio ad excludendum per cui i comunisti di fatto sono esclusi dal governo.
Nel 1972 Berlinguer diviene segretario del PCI e al XII congresso riprende la formula togliattiana della collaborazione fra le grandi forze popolari: comunista, socialista e cattolica. Ma c'è anche di più, non si tratta solo di ribadire la tesi che Togliatti espresse sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Con tre articoli su «Rinascita», fra il settembre e l'ottobre del 1973, Berlinguer propone la sua analisi della società moderna partendo dal colpo di Stato in Cile, che ha mostrato a cosa può andare incontro una democrazia fragile. Così scrive il 12 ottobre del 1973: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». Lo spiega chiaramente. L'Italia è una democrazia debole che ha bisogno di un'alternativa condivisa e costruita dai grandi partiti di massa.
Il grande successo elettorale, ottenuto dai comunisti italiani alle elezioni del 1975 e del 1976, conferma l'intuizione di Berlinguer e sconvolge il sistema politico, ormai da anni afflitto da un'endemica instabilità e bloccato dalla DC che è al centro dei governi e delle maggioranze parlamentari. I tempi sembrano maturi per un cambiamento radicale della politica italiana. Nel 1976 accanto alla proposta del compromesso storico, Berlinguer esplicita l'altro tema della sua politica di dirigente comunista: rompe con il Partito Comunista sovietico. A Mosca, davanti a 5 mila delegati Berlinguer parla del valore della democrazia e del pluralismo, sottolinea l'autonomia del PCI dall'URSS e condanna l'interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri paesi. È l'eurocomunismo.
Con il compromesso storico e l'eurocomunismo, Berlinguer porta il PCI, dopo le elezioni del 1976, al primo governo della solidarietà nazionale. Si tratta di un monocolore democristiano che si regge sulla «non sfiducia», cioè sull'astensione dei vecchi partners di governo ai quali si aggiungono i comunisti. A sinistra, molti sottolineano che non è questa la ratio del compromesso storico e che il PCI non riuscirà ad ottenere ciò che ha chiesto ai democristiani in cambio della non sfiducia. E, infatti, le elezioni del 1977 non lo premiano. Nel gennaio 1978 Berlinguer incontra Aldo Moro, il leader democristiano con cui ha costruito il governo della solidarietà nazionale e gli chiede di agevolare l'entrata dei comunisti al governo. Ma ad opporsi sono in molti: la destra democristiana, il Vaticano, gli amici americani, la destra italiana. E intanto nel paese il terrorismo miete le sue vittime; due mesi dopo le BR rapiscono e uccidono Moro. È la fine della solidarietà nazionale e del progetto di Berlinguer. Il PCI torna all'opposizione.
Nel 1981, in un'intervista a Eugenio Scalfari, Berlinguer accusa la classe politica italiana di corruzione, sollevando la cosiddetta questione morale. Denuncia l'occupazione da parte dei partiti delle strutture dello Stato, delle istituzioni, dei centri di cultura, delle Università, della Rai, e sottolinea il rischio che la rabbia dei cittadini si trasformi in rifiuto della politica. È l'analisi di un grande leader politico che l'11 giugno del 1984 a Padova, mentre conclude la campagna elettorale per le elezioni europee, viene colpito da un ictus. Il suo funerale è stato il più imponente della storia d'Italia, dopo quello di Giovanni Paolo II. A Roma erano milioni i cittadini che lo salutarono l'ultima volta.
Storico uomo politico della destra italiana, Giorgio Almirante
nacque a Salsomaggiore, in provincia di Parma, il 27 giugno 1914. Il
padre, attore, direttore di scena di Eleonora
Duse e di Ruggero Ruggeri e poi regista del cinema muto,
apparteneva ad una famiglia di attori e di patrioti,
con ascendenti appartenenti all'alta nobiltà di Napoli. Il piccolo
Giorgio visse quindi i suoi primi anni seguendo la famiglia da una
città all'altra, fino a che gli Almirante si stabilirono a Torino,
dove intraprese studi regolari. Successivamente, si trasferì con la
famiglia a Roma, dove si iscrisse all'università nella Facoltà di
Lettere. Parallelamente agli studi, intraprese la carriera di
cronista praticante presso "Il Tevere", quotidiano fascista
diretto all'epoca da Telesio Interlandi. Vi rimase fino al luglio
1943, ormai trentenne. Conseguita la laurea in lettere e
l'abilitazione all'insegnamento di materie classiche, dopo sei anni
di praticantato gratuito, viene nominato da Interlandi caporedattore
e, poco dopo, anche segretario di redazione della nuova rivista "La
Difesa della razza", inizialmente diretta dallo steso
Interlandi. Cresciuto dunque in piena epoca fascista, come gran parte
dei suoi coetanei militò nelle organizzazioni giovanili fasciste, ma
durante il regime non andò oltre la carica di fiduciario del GUF
della facoltà di lettere dell'università di Roma. Quasi
cinquant'anni dopo, avrebbe ammesso di essere stato allora razzista e
antisemita in buona fede e per motivi politici (come molti
giornalisti
italiani poi passati all'antifascismo); la collaborazione alla
"Difesa della razza fu", di tutta la sua vita, l'unica
esperienza che sconfessò completamente, pur conservando un ottimo
ricordo di Interlandi. Inoltre, è noto che Almirante, durante il
periodo della Repubblica
di Salò, salvò dalla deportazione in Germania un suo amico
ebreo e la famiglia di questo, nascondendoli nella foresteria del
ministero della Cultura popolare a Salò. Intanto, scoppia la seconda
guerra mondiale, evento che vedrà Almirante coinvolto anima e
corpo. Infatti, essendo stato richiamato alle armi come sottotenente
di complemento di fanteria, viene mandato in Sardegna a comandare un
plotone di guardia alla costa, un compito non certo esaltante.
Almirante, invece, desiderava partecipare attivamente alle operazioni
di guerra; si offrì dunque volontario per il fronte dell'Africa
settentrionale, e a tal fine si fece nominare corrispondente di
guerra. Raggiunse Bengasi alla fine dello stesso mese di giugno dove
visse le alterne fasi della guerra fino a tutto il 1941, ottenendo la
croce di guerra al valor militare. Tornato poi a Roma, riprese il suo
posto di caporedattore del Tevere. La mattina del 26 luglio 1943,
però, Mussolini
cade. Come politico sembra ormai del tutto finito. Numerose sono le
defezioni fra i fascisti, molti dei quali passano improvvisamente al
fronte democratico, comportamento che invece Almirante rifiuta.
Rimane dunque improvvisamente solo: anche il suo ex direttore,
Interlandi, viene arrestato come "fascista pericoloso". Ai
primi di agosto Almirante risponde ad una nuova chiamata alle armi,
come tenente, presentandosi a Frosinone presso il suo vecchio
reggimento di prima nomina. Là viene sorpreso, l'8 settembre, dalla
notizia dell'armistizio; il giorno dopo, trovandosi a comandare
provvisoriamente una compagnia distaccata, viene abbandonato da
superiori e sottoposti e preso dai tedeschi, dai quali ottiene però
di arrendersi con l'onore delle armi e di essere lasciato libero;
raggiunge allora il colonnello comandante l'ormai dissolto reggimento
e, una volta ottenuta una formale licenza, torna a Roma a piedi. Dopo
il discorso di Mussolini
alla radio di Monaco che invitava ad un ricompattamento dei fascisti
e quello del maresciallo Graziani al teatro Adriano di Roma, compie
la sua scelta di campo: si arruola nella costituenda Guardia
nazionale repubblicana con il grado di capomanipolo. Dopo pochi
giorni di lavoro a Venezia, Almirante passa alla sede di Salò dove
svolge varie mansioni: prima capo di gabinetto del ministro della
Cultura popolare poi attendente di Mussolini.
La sua attività di funzionario ministeriale viene interrotta tra il
novembre 1944 e il gennaio 1945 dalla sua partecipazione, come
tenente comandante il reparto del ministero della Cultura popolare
nella brigata nera autonoma ministeriale, alla campagna
antipartigiana di Val d'Ossola, durante la quale però egli e i suoi
uomini non hanno mai occasione di partecipare a combattimenti. Il 25
aprile 1945 Almirante, che aveva seguito Mussolini
e il ministro Mezzasoma a Milano, entra in clandestinità, a causa
delle rovinosa caduta
del fascismo. Rimane in questa condizione per più di un anno e
mezzo. Uscito dalla clandestinità nel settembre 1946, si reca a Roma
e da lì intraprende un'intensa attività politica, partecipando alla
fondazione di un gruppo di reduci fascisti repubblicani, il
"Movimento italiano di unità sociale" (MIUS). Il 26
dicembre 1946, invece, Almirante partecipa alla riunione costitutiva
del "Movimento sociale italiano" (MSI), che si svolge a
Roma nello studio dell'assicuratore Arturo Michelini. Contrariamente
a quanto si crede, infatti, Almirante non è stato da subito
segretario del MSI, compito che per diversi anni toccò a Michelini.
Nel 1948 Almirante conduce, per le elezioni politiche del 18 aprile,
una durissima campagna elettorale Il MSI ottenne il 2 per cento dei
voti ed entrò in Parlamento con sei deputati, tra i quali lo stesso
Almirante, e un senatore. Almirante in quella prima fase
rappresentava la continuità ideale con il fascismo repubblicano. Fu
eletto segretario del MSI dopo i primi due congressi nazionali del
partito (Napoli, giugno 1948; Roma, giugno-luglio 1949). Nel corso
delle successive legislature della Repubblica Almirante si distinse
in battaglie ostruzionistiche in Parlamento come quella contro
l'attuazione dell'ordinamento regionale dello Stato. Altre battaglie
lo vedono protagonista, come ad esempio quella contro la legge Scelba
sul divieto della ricostituzione del Partito fascista o contro la
riforma elettorale maggioritaria di De
Gasperi, in difesa dell'italianità di Trieste e dell'Alto Adige,
contro la nazionalizzazione dell'energia elettrica e contro la
riforma della scuola media. Nel 1969 muore Michelini e, di fronte al
problema della successione alla guida di un partito in grave crisi,
(nelle elezioni politiche del 1968 era sceso al 4,5 per cento dei
voti, suo minimo storico ad eccezione del risultato del 1948), il
gruppo dirigente del MSI elegge Almirante segretario nazionale
all'unanimità. La segreteria Almirante mira fin dall'inizio
all'unità delle destre, trattando a tal fine con i monarchici e con
gli indipendenti di centro-destra. Nelle elezioni regionali del 7
giugno 1970 il MSI ebbe una discreta ripresa, anche grazie al lancio
di alcune parole d'ordine da parte del segretario: "alternativa
al sistema", "destra nazionale" e così via. Inoltre,
forte presa sull'elettorato ebbe l'idea della formazione di un
"Fronte articolato anticomunista" con altre forze
politiche, agglomerato che poi di fatto costituì la Destra
nazionale. Il risultato di questa operazione di "maquillage"
porta il partito ad ottimi risultati nelle elezioni regionali
siciliane e amministrative del 13 giugno 1971: il 16,3 per cento dei
voti in Sicilia e il 16,2 per cento a Roma. Il 28 giugno 1972 la
procura della Repubblica di Milano chiede alla Camera
l'autorizzazione a procedere contro il segretario nazionale del MSI
per il reato di ricostituzione del disciolto Partito fascista,
autorizzazione concessa con 484 voti contro 60; ma l'inchiesta sulla
presunta ricostituzione del PNF, trasferita alla procura della
Repubblica di Roma non fu mai portata a termine. Nel 1975-76
Almirante prova a rilanciare il suo partito con un'iniziativa che
doveva rappresentare una nuova fase dell'operazione Destra nazionale:
la "Costituente di destra per la libertà", organizzazione
esterna e alleata, fondata il 22 novembre 1975. Ma nelle elezioni
politiche del 20 giugno si consuma la scissione all'organizzazione
giovanile del partito, il Fronte della gioventù. Almirante
commissaria questa organizzazione, e il 7 giugno 1977 nomina egli
stesso il nuovo segretario del Fronte nella persona di Gianfranco
Fini, allora venticinquenne, che già si era guadagnato la sua
fiducia. Le elezioni regionali e amministrative del 1978 danno però
risultati negativi al MSI-DN. Nel corso della campagna elettorale,
fra l'altro, un esponente di Democrazia nazionale lo aveva accusato
di favoreggiamento personale nei confronti di un presunto
responsabile della strage di Peteano (avvenuta nel 1972); l'accusa,
pur smentita dal senatore di Democrazia nazionale sulle cui
confidenze avrebbe dovuto basarsi, portò ad una lunga inchiesta, al
cui termine Almirante fu rinviato a giudizio con altri, ma amnistiato
prima dell'inizio del processo. Questo fu l'unico coinvolgimento di
Almirante in un'inchiesta su fatti di terrorismo; in un altro caso
egli, avendo avuto notizia nel luglio 1974 dei preparativi di un
attentato ad un obiettivo ferroviario, ne informò subito le
autorità. Iniziata la IX legislatura, diviene presidente del
Consiglio Bettino Craxi,
che sembrava intenzionato a "sdoganare" il MSI-DN. Ma il
partito di Almirante rimase sostanzialmente isolato a destra; e se in
un'importante occasione sostenne di fatto il governo Craxi,
permettendo nel febbraio 1985 la conversione in legge del cosiddetto
secondo decreto Berlusconi,
lo fece per una convergenza di interessi con alcune forze della
maggioranza (contro il monopolio televisivo di Stato). Nel luglio
1984 Almirante annuncia la propria intenzione di lasciare la
segreteria per ragioni di salute entro la fine dell'anno, in
occasione del prossimo congresso nazionale. Ma il partito gli chiede
quasi all'unanimità di recedere da tale proposito. L'anziano leader
acconsente a rimanere in carica ancora per un biennio. Il XIV
congresso nazionale del MSI-DN (Roma, novembre-dicembre 1984) lo
rielegge segretario per acclamazione, ignorando la contrapposta
candidatura di Tomaso Staiti. Con queste assise inizia la fase finale
della seconda segreteria Almirante, in cui tutte le cariche
principali furono affidate ad uomini della vecchia guardia e di tutte
le correnti. Almirante, poi, assunse personalmente la carica di
direttore politico del Secolo d'Italia. Il 12 maggio 1985 il MSI-DN
ottenne nelle elezioni regionali il 6,5 per cento dei voti (suo
massimo storico in questo genere di consultazioni) e riportò a
Bolzano, nelle elezioni comunali, l'ultimo clamoroso successo del
periodo almirantiano, divenendo il primo partito del capoluogo di
quella provincia la cui italianità era sempre stata difesa dai
missini. Un altro buon risultato il MSI-DN ottenne nelle elezioni
regionali siciliane del giugno 1986. Nell'agosto dello stesso anno il
segretario missino, colto da malore, dovette essere ricoverato nella
clinica romana di villa del Rosario. Nelle elezioni politiche del 14
giugno 1987, in occasione delle quali Almirante condusse la sua
ultima campagna elettorale, il MSI-DN scese al 5,9 per cento dei
voti, 35 seggi alla Camera e 16 seggi al Senato: un insuccesso che
concludeva un periodo di quattro anni assai positivo, anche se i
risultati particolareggiati confermavano il radicamento del partito
in ogni parte d'Italia. Il 6 settembre successivo, in occasione della
festa Tricolore di Mirabello (Ferrara), Almirante presentò
ufficiosamente come proprio "delfino" il trentacinquenne
Fini, il più giovane deputato del MSI-DN. Almirante teneva
moltissimo a che il suo successore fosse un suo uomo di fiducia; ma
il designato avrebbe potuto essere anche della sua stessa
generazione, e in questo caso sarebbe stato probabilmente il
vicesegretario vicario Servello. L'imprevista scelta in favore di
Fini fu da molti considerata, in quei mesi, un mero stratagemma di
Almirante per continuare a dirigere il partito, in qualità di
presidente, dopo avere lasciato la segreteria; sette anni dopo,
invece, tale scelta si sarebbe rivelata retrospettivamente una delle
più felici del fondatore della Destra nazionale, avendo liberato il
MSI-DN dall'ipoteca di un gruppo dirigente troppo anziano e dunque
troppo legato al passato per poter mai uscire dal ghetto politico
della destra radicale. Per ovvie ragioni la maggioranza dei vecchi notabili missini
accolse con freddezza o aperta ostilità la candidatura di Fini, che
incontrava invece il favore di vari notabili della generazione
successiva. Nella fase precongressuale il partito fu lacerato dalle
più dure polemiche dell'ultimo decennio, polemiche che non
risparmiavano il segretario uscente. Ad ogni modo, Almirante fu
eletto presidente del partito il 24 gennaio 1988, per acclamazione,
dalla maggioranza del nuovo comitato centrale, incarico che mantenne
per soli quattro mesi, gli ultimi della sua vita. Il 22 maggio 1988,
dopo mesi di sofferenze e di ricoveri Gtiorgio Almirante si spegne
nella clinica di Villa del Rosario. Fini onorò nel suo predecessore
e maestro "un grande Italiano" e "il leader della
generazione che non si è arresa".